Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, mandarono da Gesù alcuni farisei ed erodiani, per coglierlo in fallo nel discorso.
Vennero e gli dissero: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno, ma insegni la via di Dio secondo verità. È lecito o no pagare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare, o no?».
Ma egli, conoscendo la loro ipocrisia, disse loro: «Perché volete mettermi alla prova? Portatemi un denaro: voglio vederlo». Ed essi glielo portarono.
Allora disse loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Gesù disse loro: «Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio».
E rimasero ammirati di lui.
Il Tributo a Cesare si riferisce alla tassa “pro capite” detta anche “testatico” che ogni suddito doveva versare al fisco imperiale romano. Non era solamente un impegno fiscale perché l’azione, per gli israeliti, aveva valenza di grave impurità dottrinale quale il maneggiare la moneta con l’effige dell’Imperatore e, anche se obbligati, rapportarsi ad un personaggio straniero che in aggiunta si autodefiniva “divino”. Infatti la moneta in questione era il “denaro” che portava l’iscrizione “Tiberio Cesare Augusto figlio del divino Augusto”. Interpretare il brano principalmente e solamente come abilità dialettica da parte di Gesù per sfuggire dalle insidie della domanda, è del tutto fuorviante. Il brano ha un immenso valore perché ci obbliga ad essere bravi cittadini, a rapportarci correttamente con lo Stato e la sua laicità. Adempiuto questo dovere però ne resta un altro che rimanda al rapporto con Dio, certamente più impegnativo e più autentico: testimoniare la nostra fede con parole e opere rimanendo nella laicità della società.