Sicuramente il cambiamento che ha avuto un impatto maggiore nella nuova traduzione del Messale è quello del Padre nostro. Siamo invitati a non dire più «e non ci indurre in tentazione», ma «e non abbandonarci alla tentazione». Perché questo cambiamento? È giusto? Ma allora era sbagliato quello che dicevamo prima?
Mi metto nei panni di un parroco che deve rispondere ai suoi parrocchiani, oppure di un catechista che ne parla con i ragazzi o i genitori che accompagna. La prima cosa che farei è tranquillizzare: non è cambiato l’originale, né del messale (che è in latino) né dei vangeli (che sono in greco); si tratta solo di una nuova traduzione italiana, più vicina al linguaggio e alla sensibilità dei nostri giorni. Ogni lingua infatti col tempo cambia; l’italiano di oggi non è quello di Dante e Petrarca, ma neanche esattamente quello che parlavano i nostri nonni (ammesso che parlassero italiano…).
L’evangelista Matteo, quando scrive le parole del Padre nostro (cfr. Mt 6,13), usa un verbo composto, che alla lettera significa «condurre dentro»; potremmo tradurre così l’invocazione della preghiera del Signore: «e non condurci dentro la tentazione». Nei primi secoli del cristianesimo, quando si è tradotto la Bibbia e la Liturgia in latino, si è pensato di usare il verbo inducere, che significa proprio «introdurre», «far entrare». È stato facile, passando all’italiano, rendere il latino inducere con il verbo «indurre». Ecco spiegato perché abbiamo pregato per decenni dicendo: «e non ci indurre in tentazione».
Oggi però, in qualunque dizionario della lingua italiana, troviamo scritto che il verbo «indurre» ha un significato negativo; ci fa pensare a qualcuno che cerca di farci fare qualcosa di sbagliato, contro la nostra volontà. L’italiano, cioè, ha perso quel significato che era prevalente in latino e prima ancora in greco; non diremmo mai, per esempio, che gli amici del paralitico «cercavano di indurlo e di metterlo davanti a Gesù», (Lc 5,18). Eppure in greco c’è lo stesso verbo del Padre nostro; ma in italiano lo abbiamo tradotto con «cercavano di farlo entrare». La traduzione precedente della preghiera di Gesù, quella che tutti abbiamo già a memoria, non era dunque sbagliata; però è imprecisa, perché non rende più il significato originale, quello che c’è nei Vangelo secondo Matteo e Luca. È l’italiano che è cambiato, non i Vangeli.
La domanda che ci poniamo è dunque: qual è l’idea che sta sotto all’invocazione che Gesù ci insegna e come renderla bene in italiano? Gesù ci insegna a chiedere al Padre che non ci faccia entrare nella tentazione: è un modo con cui si esprime non tanto l’idea che sia Dio a condurci (o non condurci) nelle sabbie mobili della tentazione, ma che lui ci può aiutare a non finirci dentro. Non abbandonarci nelle mani della tentazione, non lasciarci soli se vedi che stiamo entrando nel bosco scuro della tentazione. «Non abbandonarci alla tentazione» non è una traduzione letterale, ma rende bene il senso dell’invocazione di Gesù, “tradotto” nel nostro contesto culturale e teologico. Come dice la lettera di Giacomo, «nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno. Ciascuno piuttosto è tentato dalle proprie passioni, che lo attraggono e lo seducono» (Gc 1,13-14); in questa lotta per non cadere nella tentazione, chiediamo al Padre che sia al nostro fianco. Nelle prove, nelle difficoltà, quando vedi che il maligno ci tenta, non abbandonarci, ma liberaci dal male; rimani con noi, lotta con noi, perché sei nostro Padre. E senza di te non possiamo far nulla.
(Testo tratto da Lettera Diocesana 2020/08)
È la notte di Natale e siamo nella regione intorno a Betlemme, dove oggi sorge la città di Bayt-Sahur, quando un angelo del Signore annuncia ad alcuni pastori che è nato Gesù, un Salvatore, che è Cristo Signore; «e subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama”» (Lc 2,13-14). Tutti noi abbiamo in mente la traduzione latina: Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis, tradotta in italiano con «Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà». La differenza con la nuova traduzione si nota subito: da «uomini di buona volontà» si è passati ad «uomini che egli ama». Su cosa si fonda tale cambiamento?
Il Vangelo secondo Luca usa un’espressione molto densa; alla lettera suona così: «sulla terra pace negli uomini della benevolenza». Ora la parola “benevolenza”, in greco eudokìa, può avere due significati. Il primo è quello che troviamo per esempio in Fil 2,15: «Alcuni, è vero, predicano Cristo anche per invidia e spirito di contesa, ma altri con buoni sentimenti»; qui il greco eudokìa, benevolenza, viene tradotto con “buoni sentimenti” e sta ad indicare le buone intenzioni dei predicatori. La Bibbia latina ha tradotto così anche il Gloria, quando ha reso «gli uomini della benevolenza» con «gli uomini di buona volontà», cioè coloro che hanno sentimenti e volontà in sintonia con i sentimenti e la volontà di Dio.
C’è però un altro significato, che è il più diffuso nel Nuovo Testamento; eudokìa in più di un testo indica non tanto la buona disposizione degli uomini, quanto piuttosto il disegno d’amore di Dio. Leggiamo per esempio nell’inno della lettera agli Efesini: «predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà» (Ef 1,5). Potremmo leggere anche la riflessione di Fil 2,13: «È Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo il suo disegno d’amore»; oppure l’esclamazione di Gesù: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza» (Lc 10,21). In tutti e tre questi testi, nel greco c’è lo stesso vocabolo, eudokìa.
Come intendere dunque le parole degli angeli? Stanno parlando della pace che regna tra gli uomini che seguono la volontà di Dio, oppure di quella pace che Dio da sempre ha voluto dare loro nel suo disegno d’amore? Questo versetto di Luca è un esempio chiaro di come un buon dizionario di greco spesso non sia sufficiente per capire una parola o una frase; a volte ci sono parole che in greco hanno più di un significato e solo guardando al contesto in cui sono inserite possiamo scegliere.
Torniamo dunque alla notte di Betlemme, agli angeli e ai pastori: tutto parla di Dio che si è ricordato della promessa fatta a Davide; dopo più di cinquecento anni d’attesa, finalmente è nato il Cristo, cioè il Messia. Ma la risposta di Dio alle preghiere del suo popolo va oltre le attese: Gesù è anche il Salvatore e il Signore; è discendente di Adamo, e non solo di Abramo; è la gloria di Israele ma anche la salvezza e la luce per tutti i popoli della terra. Dall’insieme delle parole degli angeli si ha proprio l’impressione, confermata dai primi capitoli del Vangelo, che al centro stia l’azione di Dio; Luca canta la sua benevolenza per l’umanità, il compiersi finalmente del suo disegno d’amore. La nuova traduzione, dunque, rispetta di più il testo greco di Luca; anche se va oltre il latino del messale…
(Testo tratto da Servizio della Parola 521/522)
Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Giovanni proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».
Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».
L’evangelista Marco racconta il battesimo di Gesù con la sua abituale sobrietà.Non ha parlato della nascita di Gesù e nemmeno della sua infanzia. Per lui, tutto ha inizio col battesimo di Gesù.
I pochi versetti dedicati alla missione di Giovanni ri-chiamano e riassumono in breve la lunga attesa, da parte dell’umanità, della venuta del Salvatore. La mis-sione del Salvatore comincia con il far passare in se-condo piano il precursore, il quale, potendo proporre soltanto un battesimo d’acqua, lascia il posto a colui che battezzerà nello Spirito Santo.
Comincia una nuova era, una creazione assolutamente nuova. Il Creatore prende il posto della creatura. Il Salvatore scende nel Giordano come un peccatore, il giudice di questo mondo fa la parte di un nuovo Ada-mo. Gesù esce dall’acqua e intraprende la propria missione, come all’inizio l’uomo fu plasmato dal fango, mentre un flutto risaliva dalla terra e bagnava la superficie del suolo (Gen 2,6). Gesù riceve lo Spirito Santo come già un tempo: «Dio... soffiò nelle sue narici un alito di vita» (Gen 2,7). E Gesù, secondo Marco, diviene l’uomo nuovo, proprio come di Adamo si dice: «E l’uomo divenne un essere vivente» (Gen 2,7).
L’umanità ricomincia allora, col battesimo di Gesù, su basi nuove. Dovrà ancora passare attraverso l’espe-rienza della morte ed entrare quindi nella gloria della risurrezione. Dovrà ancora, e deve tuttora, trasfor-marsi lentamente in ogni uomo, aspettando il giorno in cui «vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi... Ed egli... riunirà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo» (Mc 13,26-27). Allora non ci sarà più battesimo (At 21,23-27).
Un bambino che nasce è come l’origine di un viaggio. Anzitutto egli deve venire fuori, oltrepassare una frontiera per poi partire. La prima esperienza che il bambino fa è quella di essere gettato nel mondo, ovvero di dover iniziare un viaggio che probabilmente non avrebbe scelto e del quale non consce nulla: stava così bene all’interno del grembo e tutt’a un tratto si è trovato straniero in una terra sconosciuta. I suoi primi punti di riferimento saranno ora l’abbraccio, la voce e successivamente lo sguardo: su queste fragili coordinate inizia il viaggio della sua vita.
Dio onnipotente e creatore di tutto ha scelto di percorre questo viaggio. Colui che attendiamo in realtà ha scelto lui di attendere ed essere bisognoso del nostro abbraccio, della nostra voce e del nostro sguardo; se Maria, come tutte le altre mamme, ha utilizzato questi linguaggi proviamo concretamente a usarli anche noi per comunicare con Dio.
L’abbraccio ci viene privato in questo tempo, ma voce e sguardo possiamo utilizzarli anche tra noi e proseguire così il viaggio della vita alla ricerca di un’umanità nuova che ancora non vediamo ma che cerchiamo, sapendo che tanto cambierà alcune nostre abitudini e che probabilmente non tutto andrà bene. Eppure ogni volta che senti una voce amica e incroci uno sguardo fedele, senti dentro l’uomo e Dio che crescono insieme.
Buon Natale
Don Lorenzo
Preghiera per il giorno di Natale
Signore Gesù, oggi festeggiamo il tuo Natale.
Riuniti attorno a questa mensa,
ci sentiamo ancora più uniti nel tuo nome.
Tu sei la nostra speranza e la nostra pace,
sei luce per ogni casa e per ogni cuore.
Ti preghiamo:
nutri sempre del tuo amore questa casa,
sii cibo che sostiene nel cammino,
balsamo che lenisce le piaghe,
acqua che rinfresca e disseta.
Ti affidiamo l’intera umanità,
soprattutto gli ammalati e
quelli che ci hanno lasciato in questo anno:
difendili, sostienili, confortali.
Sii benedetto, o Signore,
per la felicità di questo santo giorno;
fa’ che rimanga viva nel cuore
e renda più sereno il nostro cammino
in tutti i giorni che seguiranno.
Amen
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nasce-rà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.
L’uomo da sempre viene definito come viator (viandante) o pellegrino: in effetti per molto tempo e ancora oggi in molti luoghi del mondo per gli uomini è nomale spostarsi.
Peregrinus (per = al di là, ager = campo) vuol dire “andare per campi”. Il pellegrino necessita di una meta, vuole raggiungere qualcosa: se non proprio un luogo almeno un senso, altrimenti diventerebbe un errante vagabondo e un ramingo senza scopi.
La prima parola che Dio dice nella Bibbia la rivolge all’uomo chiedendogli «Adamo, dove sei?» (Genesi 3,9). Adamo si era perduto, aveva smarrito il senso della sua vita e Dio, non a caso, gli rivolge questa domanda nell’intento che possa orientarsi.
Siamo tutti disorientati, chi più chi meno: dopo tanti mesi di prova in questa situazione è stata minata profondamente la nostra ecologia (eco = casa/ambiente): la casa che prima eravamo abituati a vivere, con i nostri ritmi e consuetudini, è cambiata e non sappiamo neppure se tornerà mai quella di prima: relazioni, tempi, economia, salute…
In questo periodo non vediamo ancora una meta, sarebbe chiedere troppo, eppure dobbiamo vincere la tentazione di stare fermi, immobilizzati come un cadavere. Ciascuno di noi è invitato singolarmente e come comunità religiosa e sociale ad uscire dalla propria comfort zone e a camminare per mettersi in viaggio. Il viaggio ora è il nostro luogo, è la nostra casa. Stare fermi significherebbe rimanere in un luogo di morte. Maria, di fronte alla proposta di Dio, si mette in movimento anche se non conosce quale sarà la sua meta: il viaggio è la sua casa e anche il suo motivo per vivere e dare vita.
Dal Vangelo secondo Giovanni
Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce.
Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e levìti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?». «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deser-to: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaìa».
Quelli che erano stati inviati venivano dai farisei. Essi lo interrogarono e gli dissero: «Perché dunque tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?». Giovanni rispose loro: «Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo». Questo avvenne in Betània, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando.
Nei dibattiti accademici si parla spesso di “nuovo umanesimo” e di “post-umano”.
Tra le varie posizioni c’è chi esalta e accoglie con bontà i progressi della scienza e della tecnica rilevando come essi valorizzino l’umano in quanto conquiste che portano a sviluppare l’uomo nella sua interezza. Personalmente mi trovo concorde con questa posizione che tende a sottolineare tutti quei talenti che l’uomo ha quali espressioni dei suoi valori e delle sue caratteristiche.
Di converso c’è anche chi considera il “post-umano” (che in realtà non coincide del tutto con il “nuovo umanesimo”) soprattutto guardando ai rischi che il progresso tecnologico e scientifico possono portare, ad esem-pio per quanto concerne il rapporto uomo/macchina, intelligenza natura-le/intelligenza artificiale, nanotecnologie…; anche di questa seconda posizione condivido molte riflessioni.
Penso, poi, a Giovanni Battista: lui “non è la luce” ma “rende testimonianza” alla luce. Il Battista è un uomo che si autocomprende come un “essere testimonianza” di una luce altra da sé, e mi fa ricordare che l’uomo è davvero importante, al punto ad essere immagine e somiglianza di Dio, ma non è lui il centro.
Durante il primo lockdown qualche mio collega teologo ha detto che la pandemia ha segnato la morte di Dio: tutto è stato gestito dalla scienza, dalla tecnologia e dalla medicina. In un primo momento, questa affermazione mi aveva effettivamente colpito e coinvolto.
Durante la cosidetta “seconda ondata” che stiamo ora attraversando, si sta facendo avanti però anche un altro pensiero: scienza e fede non sono che in apparente contrasto; medicina e tecnologia, scienza e istituzioni non sono riuscite a preservarci dalla prima inattesa ondata ma neppure dalla seconda che era certa e prevedibile. Certo tutte le forze che si mettono in campo sono buone e utili, l’impegno degli uomini allevia molte sofferenze e sono convinto che que-sto corrisponda a quello che Dio vuole da noi uomini, ovvero che ci aiutiamo e ci sosteniamo senza chiuderci in noi stessi. Tuttavia si paventa anche che tutto ciò non è sufficiente: forse
Dio non è morto! Forse aspetta. E perché? Questa è una domanda “vera” nel senso di autentica, alla quale è difficile dare una risposta consistente e convincente; ora non ce l’ho e anche se ce l’avessi probabilmente non la direi. Mi interessa di più tenere aperta la domanda per cercare una risposta: inizio a “ri-comprendere” che scienza e fede possono coesistere in una relazione di mutuo soccorso.
Dal Vangelo secondo Marco
Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio.
Come sta scritto nel profeta Isaìa:
«Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via.
Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri», vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati.
Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusa-lemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.
Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».
Spesse volte confondiamo la felicità o ci accontentiamo di alcuni suoi surrogati.
Io ero convito, e forse lo eravamo un po’ tutti, che scienza, tecnica e istituzioni potessero in qualche modo preservaci dalla sofferenza e garantirci un’esistenza felice. Certamente il nuovo umanesimo concorre allo sviluppo del bene, ma credo di essermi sbagliato. Così come la spensieratezza che ci regaliamo, seppur buo-na, non colma i vuoti delle nostre vite: semplicemente li tappa.
Nella scrittura si parla di rahamim, amore viscerale.
Una cara amica questa settimana mi ha detto: «Chiediti qual è stata l’ultima volta in cui ti sei sentito felice, quella felicità che ti prende la pancia, le viscere, in profondità, quella che accoglie le tue angosce, quella ti fa sentire la pace». Non ho esitato a rispondere: «L’altra sera, quando ero in profonda preghiera: lì ho sentito tutto ciò». Quel tipo di felicità (che si vive anche ma non solo con Dio) ti salverà, altre cose saranno surrogati.
Gesù parla di una gioia, che probabilmente non fa riferimento a quella che facilmente sperimentiamo, ma a qualcosa di più profondo: rahamim.
Il Vangelo di questa seconda domenica di Avvento ci chiede di “preparare le vie al Signore”, di avere quindi un cuore ben disposto. Non credo sia un impegno morale, cioè fare del bene; non credo neppure sia un elo-gio all’allegrezza e alla spensieratezza. Rimane autentica quella domanda: qual è l’ultima volta in cui ti sei sentito/a felice?