Io ho scelto di fare il presepe, ma non certo perché lo pensano alcuni o non lo pensano altri, neppure per chissà quale reazione o per chissà che altra protesta. Io ho scelto di farlo per il motivo per cui l’ho fatto anche gli altri anni.
Mi piace costruire il presepe, anche se semplice, anche se non ho molto tempo. Mi ricorda quand’ero bambino: per noi era un gioco, eppure quel gioco ha lasciato in me delle tracce tenere ma profonde come i solchi che l’aratro scava nelle zolle di terra, quei solchi che assomigliano quasi a pietre rovesciate. Oggi direi che fare il presepe è stata una meditazione che ha fatto sì che la Parola del Signore scavasse nella carne della mia anima. Magari tutte le cose “più serie” dei giochi avessero questi effetti!
Scelgo di fare il presepe perché è il mio modo di attendere, di desiderare, di “crearti”, Gesù. Quando penso a come mettere le statue immagino la relazione tra i personaggi, posso sentire cosa si dicono e posso vedere l’espressione dei loro volti.
Penso che qualcuno sa già come andrà a finire: “arriva il Messia” (questi c’erano anche lo scorso Natale!); altri sono ignari del perché si trovino in quella scena: come noi, anche loro hanno motivazioni diverse, ma anche l’accidentalità può farci incontrare Dio. Mentre costruisco il presepe immagino e creo l’ambientazione, prima quella più estesa, poi, pian piano, per ultima, il punto in cui si collocherà Gesù: al centro o in parte, visibile in alto oppure in nascosto in basso. Sembrava un gioco e invece era il modo di esprimere una fede diversa, una fede che cambia perché viva.
A dire il vero, adesso che ci penso, non esiste un modo diverso di attendere e desiderare: il desiderio o è un’emozione e un sogno, pertanto non esiste, oppure è qualcosa di concreto, come un gioco, un gioco che alla fine mi dice come mi sento e chi sono davanti a Dio.