Abbiamo detto più volte che l’Avvento è il tempo per desiderare e che l’attesa è il desiderio che si fa - si dilata - nel tempo: il desiderio prende la forma dell’attesa temporale. Vorrei che desiderassimo “in grande”.
Forse una difficoltà (se proprio non la si può chiamare malattia) di questi ultimi anni è quella che ha portato, pian piano, allo spegnimento della nostra capacità di desiderare e di sognare. Per questo vorrei tracciare un breve percorso che può essere applicato alla grande storia sociale dell’Europa, alla vita delle nostre due parrocchie e alla storia personale di ciascuno.
La prima tappa è lo scambio di memorie. Tutto e tutti noi siamo l’edificio vivente costruito sui mattoni passati della storia. Spesso, accanto ai mattoni buoni e felici, ce ne sono altri difficili, mal posizionati, talvolta rotti. Se pensiamo alla storia anche recente del nostro continente, senza dimenticare gli eventi delle nostre comunità parrocchiali, insieme a quelli personali di ciascuno, ci rendiamo conto che esistono delle fatiche, talvolta degli orrori inaccettabili che vivono in noi.
Un primo passo da fare è quello di scambiarsi le memorie per scioglierli, per chiedere e ricevere perdono. Popoli e persone arrivano nel nostro continente: non il distacco, ma lo scambio di memorie; le nostre comunità parrocchiali devono incontrarsi: non la diffidenza e i personalismi, ma lo scambio di memorie; la mia storia personale porta ferite aperte: non mascherare il mio debito con il passato, ma distendere il tempo con un buon amico.
La seconda tappa è scandita dal perdono. Esso è sempre un gesto del presente: oggi perdono, ora mi perdono. Il perdono è l’unica medicina capace di sciogliere le cose inaccettabili del passato. Dobbiamo, lo dobbiamo davvero fare, nel senso che non possiamo lasciare questo debito a quelli che verranno dopo, dobbiamo perdonarci tra popoli, dobbiamo perdonare la nostra diffidenza verso lo straniero (non solo l’immigrato, ma anche il mio connazionale). Ancora di più dobbiamo perdonare e cambiare il nostro cuore verso i parrocchiani di Mandria e verso quelli di Voltabrusegana: non è importante che facciamo catechismo insieme o separatamente, oppure che il mio gruppo possa cantare ad una messa invece che a un’altra, o ancora che celebriamo i sacramenti in una domenica o nella veglia pasquale. Quel che conta è che riesca a porre dei concreti gesti di avvicinamento, di superamento dei piccoli capricci di comunità o di gruppo. Infine, il perdono nella propria storia personale, impresa quanto mai ardita eppure meta di salvezza se si vuole vivere da persone riconciliate. Il perdono con il proprio passato personale si situa alla stessa altezza della promessa: se non mi perdono è come se non promettessi a me di vivere anche domani.
Il terzo passaggio è segnato dalla traduzione. Lo scambio delle memorie e il perdono devono tradursi in eventi storici, cioè devono porre gesti nuovi, segni di un’umanità rinnovata e cambiata: non sarà Avvento se non ci saranno azioni nuove e diverse rispetto a quelle che facevamo prima.
I nostri ragazzi stanno costruendo il presepe nelle macerie, i giovani delle due comunità vivono le loro messe e si apprestano al campo invernale dopo aver fatto un grande lavoro di condivisione del progetto educativo. Ci troveremo insieme la notte di Natale nella chiesa di Mandria a celebrare la nascita di Gesù, a Pasqua invece, sempre insieme, vivremo il mistero della morte e risurrezione a Voltabrusegana. Non si tratta di scelte fatte perché determinate da circostanze esterne, bensì di forme sostanziali per tradurre in gesti concreti il nostro essere fratelli, credenti e uomini. In questi gesti che cambiano il mondo non può esserci spazio per i nostri “capriccetti” di gruppo, perché inquinerebbero la stessa fraternità, cioè il desiderio espresso in una notte di veglia di scambiare le memorie, di vivere il perdono e di tradurre in gesti nuovi il cambiamento del mondo.