La Pentecoste è il dono dello spirito che, come promette Gesù, porterà alla verità tutta intera (cf. Gv 16) e farà conoscere ogni cosa (cf. Gv 14)
Il termine post-truth, post-verità, è appena nato e l’Oxford English Dictionary lo ha subito consacrato “parola dell’anno 2016”, precisandone il significato: «I fatti oggettivi sono meno influenti, nel formare la pubblica opinione, degli appelli a emozioni e delle credenze personali». È il tempo in cui l’informazione, simile all’asta di un pendolo, oscilla tra il “prima” e il “dopo” la verità (dei fatti), senza più volerla riconoscere. La cura per la ricostruzione dei fatti, la loro aderenza alla realtà e il rigore del controllo delle fonti cedono il passo alla cultura della post-verità. Questa cresce grazie ad azioni precise: fomentare la violenza (hate speech), ridicolizzare le voci delle istituzioni, toccare le emozioni e le credenze (più irrazionali) delle persone, insinuare sospetto sui fatti, inventare bufale (fake news). Il terreno fertile nel quale la post-verità fiorisce è quello della comunicazione in cui si forma il consenso, si alimentano le paure e si consolidano le identità. Ma tutto lontano dai fatti: contano, invece, le emozioni e le credenze.
È il linguaggio utilizzato dai populismi in cui l’idealismo è superiore a qualsiasi realtà. A nessuno interessa controllare: post-vero e post-falso vengono posti sullo stesso livello. Nel tempo della post-verità a pochi importa controllare se una notizia è falsa.
Il problema è che non siamo solo vittime innocenti della post-verità, ad esempio quando pieghiamo la complessità delle cose alle nostre ragioni, o trasformiamo questioni fondamentali dell’uomo in opinioni o in chiacchiere, addirittura in spade da brandire contro qualcuno. E invece «la verità è inesauribile e inoggettivabile» (Luigi Pareyson), dunque non si coglie che all’interno di un processo.