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radicemaleDi fronte agli eventi che frequentemente accadono (attentati idolatri, sterminio di cristiani, insicurezze sociali, deliranti omicidi…) mi sono chiesto quale sia la radice di tutto questo male. Vi lascio alcune riflessioni.

L’odio non ha una cura per il semplice fatto che non è una malattia (se così fosse sarebbe tutto più semplice), piuttosto esso è un sentimento che tutti proviamo tra i più complessi e variegati, e che comprende emozioni e valutazioni, strategie e tratti della personalità condizionati dalla storia e dalle relazioni personali.

Esso può essere fronteggiato anzitutto smascherandone la subdola falsità. Conoscere l’odio infatti è importante, ma è più facile che, per pudore o per tabù, cerchiamo invece di evitare l’incontro con il “nostro odio” appena ne avvertiamo la minima percezione, credendo che la soluzione migliore sia soffocarlo. Un’antica evidenza biblica in riferimento all’odio si esprime così: non giudicare. Quando di una persona (un popolo, un’etnia, un’appartenenza religiosa, sociale, politica…) giudichiamo non semplicemente gli atti ma l’essenza stessa pensando di conoscerne le intenzioni profonde, si finisce per attribuirvi in maniera deformata e ingigantita qualcosa che appartiene piuttosto a noi che stiamo giudicando.

La psicologia descrive questa operazione come “identificazione proiettiva”, che è di fatto l’ostacolo più forte per uscire dal male compiuto proprio perché tende a bloccarne un personale riconoscimento. Il primo passo allora è ammettere l’odio che, come ogni sentimento, vive dentro noi: ammetto di provare oio per le persone di altre etnie, le odio perché non lavorano, rubano…, ammetto di odiare il mio vicino di casa perché mi risulta fastidioso, ammetto di odiare il mio familiare, il mio titolare, il mio fratello di comunità, ammetto di essere invidioso di chi ha più di me o raggiunge più successi, ecc…; ammetto di odiare chiunque sia nella condizione di far nascere in me tale emozione.

Il filosofo Friedrich Nietzsche ha espresso questa dimensione proiettiva del giudizio in un folgorante aforisma: «Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo un abisso, anche l‘abisso scruterà dentro di te» (F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Milano Adelphi, p. 79)

Le interpretazioni razionali della storia tendono a smentire la possibilità che si possa attribuire il male a un autore specifico, eppure la nostra prima preoccupazione di fronte al male è quella di trovarne un colpevole e una causa. In questo modo, però, si avvia una vera e propria “caccia alle streghe” alla ricerca dal “capro espiatorio”, producendo la dicotomia tra “buoni” e “cattivi”. Si tratta di una “visione essenzialista” del male che viene considerato un’essenza in sé da attribuire ad alcune precise persone giudicate totalmente cattive.

Ecco allora che spesso definiamo il male citando celebri tiranni quali Hitler, Stalin, Pol Pot, Saddam Hussein… Tutto ciò serve a sostenere in noi la convinzione che esiste una totale separazione tra Bene e Male, assolvendo così le persone giudicate “buone” dalla loro responsabilità: così facendo esse sono liberate dal dover prendere anche soltanto in considerazione il loro possibile ruolo nel creare, difendere, perpetuare o ammettere le condizioni che contribuiscono al male.

Da questo pregiudizio nasce la classica separazione, rilevabile a diversi livelli (soprattutto in ambito politico e religioso dove è sempre vitale avere dei nemici cattivi per far rilevare la presunta propria bontà), tra “buoni” e “cattivi”, tra “mostri” e “normali”, non rendendosi conto che, così facendo, ci si arroga il diritto e la stoltezza di essere giudici sommari e ci si avvicina pericolosamente ai criteri e ai comportamenti utilizzati dai “cattivi”.

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