Nella “globalizzazione dell’indifferenza” due fatti hanno scosso la nostra coscienza. Nel marzo scorso, la foto di una bambina neonata che viene lavata nel campo di Idomeni (al confine tra Grecia e Macedonia): la madre cerca di lavarla con l’acqua di una bottiglietta di plastica. È inverno anche lì, fa freddo e tutt’intorno ci sono fango, immondizia e plastica.
Mancano le condizioni igieniche minime per un bambino che nasce: non c’è un tetto, solo una tenda. L’altra immagine è quella dal bambino siriano senza vita riverso con la faccia sulla sabbia di una spiaggia turca vicino a Bodrum. Era il 2 settembre 2015. Il suo nome è Aylan. Aveva tre anni ed era partito dal nord della Siria, ma il suo viaggio della speranza si è concluso in tragedia con il naufragio. Con lui sono morti il fratellino Galip di cinque anni e la loro madre. Questi bambini non erano i soli, ma due dei 270.000 minorenni che nel 2015 hanno cercato di arrivare in Europa. I minori rappresentano il 27% delle persone registrate, e la maggior parte di questi ha tra i 15 e i 17 anni. Qui si apre il baratro: almeno 10.000 minori emigrati in Europa sono spariti nel nulla (Cifre di Europol di Londra, del Ministero del Lavoro - Direzione Generale dell’Immigrazione e della Fondazione Migrantes. Dalla documentazione di Save the Children risulta che il 30 giugno 2015 in Italia fossero presenti 1.892 minori egiziani di cui 1.239 risultavano irreperibili: piccoli fantasmi ingoiati dal nulla. Nelle documentazioni del Ministero delle Politiche Sociali si confermano le testimonianze di sfruttamento, abusi, violenza fisica e sessuale subiti da minori.
La migrazione è il fenomeno che maggiormente ha caratterizzato il 2015, ed è la conseguenza della storia contemporanea: i numerosi conflitti che lacerano l’Africa (Nigeria, Burkina Faso, Burundi, Marocco, Tunisia, Algeria, Egitto e Siria), il terremoto in Nepal, gli sconvolgimenti in Medio Oriente, il fenomeno dello “Stato Islamico”, i flussi dall’est (Ucraina, Bulgaria, Romania) hanno causato un movimento migratorio di circa un milione di persone. Molte di queste si sono avventurate per mare mettendo a repentaglio la propria vita. In questa cronaca il dramma nel dramma: le migliaia di bambini che arrivano, vengono registrate e poi scompaiono nel nulla.
Molti dei minori provengono da situazioni di povertà estrema, spesso sollecitati dai loro genitori a cercare un qualsiasi lavoro in Europa. Sovente le famiglie non hanno denaro per il viaggio e contraggono debiti che devono essere risarciti dal lavoro dei bambini: investono nei minori perché hanno maggiori possibilità e tutele nell’essere accolti dai Paesi che raggiungono. I minori vengono infatti inseriti nelle strutture di accoglienza dalle quali spesso scappano per raggiungere i connazionali: proprio questi, di solito, approfittano della loro vulnerabilità. I minorenni finiscono così nelle maglie del lavoro nero per una paga miserabile, alcuni vengono pagati con le monete locali per cui, abbagliati dalla somma, non sanno nemmeno di essere sfruttati; altri sono coinvolti in attività illegali, spaccio, furti e rapine; le ragazze avviate alla prostituzione.
A un giovane proveniente dal sud della Libia e sopravvissuto al naufragio è stato chiesto se non era più conveniente rimanere nella propria casa piuttosto che rischiare la morte. La risposta è stata: «Cerchiamo salvezza, futuro, cerchiamo di sopravvivere. Non siamo né stupidi, né pazzi. Siamo disperati e perseguitati.
Restare vuol dire morte certa, partire vuol dire morte probabile. Tu cosa sceglieresti? Non abbiamo colpe se siamo nati dalla parte sbagliata» (da Migranti, nn.7-8, luglio-agosto 2014).
Che fare? È la domanda che tutti ci rivolgiamo con buone intenzioni, sorpresi poi dalla nostra incapacità di agire. La domanda non è solo nostra, ma dell’intera Europa che ne è responsabile. Essa però sembra non solo essere inesistente, ma addirittura contraria. I flussi migratori sono sempre stati inarrestabili: non servono gli sgomberi, i blocchi delle frontiere e le repressioni. Questa è la miopia di chi chiude le frontiere e pensa di aver risolto il problema. L’immigrazione non può essere un problema di sicurezze economiche, ma una sfida che rimette al centro l’uomo. La risposta non può essere una prigione male organizzata a cielo aperto, ma un impegno per i diritti alla vita di ciascuno. L’Europa stessa nasce anzitutto come progetto di pace e, se si tiene presente la storia, questo obiettivo finora è stato raggiunto e mantenuto. In essa si è privilegiato molto lo “spazio” come possibilità di muoversi liberamente, il che ha contribuito a sviluppare l’economia, ma meno il bisogno di sentirsi a casa.
La paura e la costruzione di muri e blocchi favorisce l’emerge di ripiegamenti nazionali. L’Europa si trova di fonte una nuova sfida che le chiede di ridefinirsi e di interrogarsi una volta ancora sul perché esiste un’Europa. In questa processo noi cristiani siamo chiamati a difendere l’ideale di una comunità che si fonda sulla solidarietà interna ed esterna.