«Ho saputo d’essere figlio di desaparecidos solo all’età di 19 anni», racconta Claudio Goncalvez.
Con il termine desaparecidos (scomparsi) si indicano le persone arrestate tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80 in Cile e in Argentina in quanto accusate o sospettate di opposizione ai regimi dittatoriali presenti nei loro Paesi. Di queste persone, un numero superiore a 30 mila in Argentina e quasi 40 mila in Cile, si è persa ogni traccia in seguito al loro arresto.
«Mio padre lo hanno sequestrato il primo giorno del colpo di stato (il 23 marzo 1976). Io non ero ancora nato, sono nato in giugno. Nel novembre del ‘76 eravamo con la mia mamma, che aveva altri due figli di 4 e 5 anni. I militari sapevano bene chi stava dentro l’appartamento (un solo uomo, 2 donne e 3 bambini) e in 40 – ben 40! – hanno circondato la casa e hanno attaccato con armi da guerra. Quel giorno sono rimasto io da solo. Mi hanno portato in ospedale dove sono rimasto 6 mesi. Non hanno mai detto alla mia famiglia che io ero vivo. I miei nonni mi cercavano. I militari sapevano chi ero io, chi era la mia famiglia, ma la regola era il silenzio. Il loro scopo coi bambini – quando non li portavano via – era di impedire loro di tornare con la propria famiglia per evitare che diventassero uguali ai propri genitori. Ed è per questo che, dopo sei mesi senza che nessuno mi venisse a trovare, mi hanno dato in adozione a una famiglia che non conosceva le miei origini. L ’organizzazione Abuelas, insieme ad altre organizzazioni con cui lavora, è riuscita a trovarmi dopo 19 anni.
L’essere figlio di desaparecidos ha influenzato fortemente le mie scelte di vita, sin dal momento in cui l’ho saputo. Ho una figlia di tre anni e mi crea un senso di disperazione, per esempio, l’idea che, se io dovessi morire, lei possa non avere più alcun ricordo della mia persona e dell’amore che nutro per lei. Quindi cerco sempredi lasciare alla mia bambina ricordi, foto, quaderni con miei scritti... Pagherei chissà cosa per vedere una foto di mio padre, per sentirlo parlare. Non conosco il suono della sua voce, non ho mai visto nessuna cosa sua, tranne la testimonianza e il racconto di qualcun altro. Da anni penso a lui, cerco di trovare qualcosa su di lui, e grazie a suoi amici, grazie ai racconti dei familiari sto costruendo una figura, un’immagine dentro di me, sto lavorando alla ricostruzione della sua storia. Questo mi colpisce molto nel senso che contribuisce alla voglia di cercare il modo più giusto per raggiungere la giustizia. Il fatto che non c’è giustizia, crea un dolore permanente, angoscia, e ti fa pensare che se in Argentina si è perdonato un genocidio, tutto è possibile…»
Nel 2003 Néstor Kirchner, poco dopo essere stato eletto presidente dell’Argentina, annullò le leggi che avevano assicurato l’impunità ai militari e a chi con loro aveva perpetrato tali torture, negate dalle Istituzioni per decenni. Grazie a questo riconoscimento e all’impegno di tante associazioni, alcuni bambini sottratti ai loro genitori sono riusciti ad essere ricongiunti, ormai adulti, alla famiglia d’origine; non ai genitori, ma almeno ai nonni. La loro storia, la memoria delle loro famiglie e di un intero popolo, così gravemente lacerata, poteva in parte essere ricostruita.
Paul Ricoeur, filosofo francese, scrisse: «Raccontiamo delle storie perché [...] le vite umane hanno bisogno e meritano d’essere raccontate. […] Rispondere alla domanda “chi?”, come aveva detto con forza Hannah Arendt, vuol dire raccontare la storia di una vita».