Non ho mai avuto un buon rapporto con la preghiera. Avevo probabilmente sei o sette anni quando alla classica domanda materna: «Hai detto le preghiere?» rispondevo falsamente con un «Certo,
mamma».
Il motivo di allora non so dirlo esattamente, ma ripensandoci credo che fossero per me una cosa inutile, che non mi appartenessero e non mi dessero nessuna emozione. Erano un semplice ripetere una filastrocca come tante altre, forse più noiosa per un bambino. Quando ero bravo riuscivo a dirle con il “pilota automatico”, continuando, in simultanea, a pensare ai fatti miei.
Poi con l’età, con l’esperienza, una persona magari realizza che pregare può essere anche stare in silenzio con se stessi, cantare con gioia, godere del sorriso di un anziano, piangere di dolore, recitare, ballare, aiutare: se Dio ci ha dato il mondo e ci ha fatti capaci di fare tante cose, in tutto questo c’è Dio e a lui dovrebbe far pensare ogni azione che facciamo.
Ecco che le parole di don Lorenzo all’omelia di domenica 24 luglio mi hanno molto rinfrancato: un invito ad uscire dai rigidi rituali e dagli schemi preconfezionati per lasciarsi trasportare dalle emozioni e dal cuore, per una preghiera che possa mettere in contatto con Dio.