Il terremoto, come qualsiasi altro evento naturale potente e drammatico, repentino e violento, porta a riflettere sulla fragilità dell’uomo: «L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura, ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo.
Ma quando l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe anche allora più nobile di ciò che lo uccide, perché egli sa di morire e il vantaggio che l’universo ha su di lui. L’universo non ne sa nulla» (Blaise Pascal).
Secondo il pensiero moderno e gli slogan contemporanei, la fragilità si presenta come esperienza inutile e antiquata, immatura e malata, estranea allo spirito del tempo moderno fondato piuttosto sull’efficienza, sulla produttività e sull’apparenza. Meglio nasconderla, la fragilità, magari con la prepotenza e la violenza, con quell’atteggiamento un po’ da sbruffoni. Eppure tutti noi avvertiamo questo sentimento (non si tratta di una semplice emozione), anzi quanto più si tenta di negarlo tanto maggiore è il suo silenzioso e profondo richiamo.
Nascosti nella fragilità, che non va confusa con una forma di debolezza, si adombrano valori di sensibilità e di delicatezza, di gentilezza e di dignità, di comunione con il destino di sofferenza di chi sta male. Anche un’attenta psicologia, quando sia psicologia umana e gentile, psicologia dell’interiorità, non può considerare la fragilità come sintomo di un disturbo, ma come una forma di vita donatrice di senso.
Fragile è una cosa (una situazione) che si può rompere, e fragile è un equilibrio esistenziale che si può frantumare; fragili sono una casa o un paese che cadono sotto le scosse del terremoto, fragili sono le relazioni vitali interrotte dagli eventi della vita. In questo mondo nulla sembra essere forte, duraturo, eterno.
Anche i sentimenti e i valori sono fragili: se non li coltiviamo vanno in frantumi, ma rompendosi spaccano l’uomo e spesso frammentano il loro stesso distruttore, ovvero la persona che non li ha coltivati o li ha distrutti.
Sono fragili la tristezza e la timidezza, la mitezza e la speranza, la gioia e la tenerezza, la nostalgia e le lacrime che, se non fossero fragili, perderebbero il loro fulgore e la loro significazione umana. I sentimenti buoni sono fragili perché si saccheggiano facilmente, non resistono all’avanzata dei ghiacciai della noncuranza e dell’indifferenza.
Gesù stesso è stato una persona fragile, ma non per questo senza coraggio e mancante di forza; anzi è la sua fragilità di uomo-Dio ferito e vulnerabile che commuove il nostro cuore e permette di confidarsi con lui.
Recuperare il significato della fragilità, la sua complessità, le sue metamorfosi, e riconoscerne le tracce negli altri è un servizio al quale siamo tutti chiamati.
Nel Vangelo di questa domenica si mostra la corsa per prendere i primi posti, “cosa” vecchia come il mondo e che accade anche nelle nostre comunità, vestita con il desiderio di primeggiare e di avere un “posto”, che oscura il servizio autentico.
Scoprirsi e riconoscersi fragili non sempre è segnale di sola debolezza e motivo di paura, ma può aiutarci a trovare il nostro posto: l’ultimo posto, quello dell’ascolto, della disponibilità totale, del servizio senza condizioni.