Chiedere è un gesto complesso e carico di tante emozioni; è un’esperienza di fraternità e, contrariamente a quanto può sembrare, un gesto di coraggio come fare il primo passo in una relazione.
Anzitutto chi chiede si sente nel bisogno e ha quella consapevolezza, che gli viene dall’esperienza della vita, di non poter fare tutto da solo: si sente legato agli altri e vive un’esperienza di solidarietà. Chi non chiede, o è da solo o pensa illusoriamente di potercela fare da solo: in ogni caso vive un’esperienza di solitudine.
D’altra parte il destinatario della richiesta si sente interpellato, forse anche investito dalla domanda. Sentirsi chiedere qualcosa da qualcuno è molto bello: vuol dire che l’altra persona ha stima di me. Spesso a taluni non chiediamo niente perché crediamo che non possano darci granché, mentre chiediamo molto a coloro per cui sentiamo grande considerazione. “Sentire” la richiesta poi è questione di sensibilità: le persone più ricettive colgono, prendono in considerazione e in vari modi rispondono; quelle insensibili accaparrano spesso scuse che servono solo a spegnere la sensibilità alla risposta. Rispondere in modo affermativo è un’assunzione di responsabilità: io mi sento partecipe con te e di te, è un gesto di solidarietà che costruisce e rinsalda i rapporti, fa sentire alle persone un legame di fratellanza. A volte si può anche dire solo: «Mi spiace, non posso aiutarti questa volta, ma ti sono vicino»; rimane comunque una risposta. Le circostanze della vita sono tante; spesso noi pensiamo i rapporti come qualcosa di romantico e ideale, invece le relazioni sono reali. Al di là di tante patine, di abbracci e baci, di discorsi altisonanti e sorrisi, forse più di tutto vale la risposta alla richiesta che un fratello ti fa.
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Nella “globalizzazione dell’indifferenza” due fatti hanno scosso la nostra coscienza. Nel marzo scorso, la foto di una bambina neonata che viene lavata nel campo di Idomeni (al confine tra Grecia e Macedonia): la madre cerca di lavarla con l’acqua di una bottiglietta di plastica. È inverno anche lì, fa freddo e tutt’intorno ci sono fango, immondizia e plastica.
Mancano le condizioni igieniche minime per un bambino che nasce: non c’è un tetto, solo una tenda. L’altra immagine è quella dal bambino siriano senza vita riverso con la faccia sulla sabbia di una spiaggia turca vicino a Bodrum. Era il 2 settembre 2015. Il suo nome è Aylan. Aveva tre anni ed era partito dal nord della Siria, ma il suo viaggio della speranza si è concluso in tragedia con il naufragio. Con lui sono morti il fratellino Galip di cinque anni e la loro madre. Questi bambini non erano i soli, ma due dei 270.000 minorenni che nel 2015 hanno cercato di arrivare in Europa. I minori rappresentano il 27% delle persone registrate, e la maggior parte di questi ha tra i 15 e i 17 anni. Qui si apre il baratro: almeno 10.000 minori emigrati in Europa sono spariti nel nulla (Cifre di Europol di Londra, del Ministero del Lavoro - Direzione Generale dell’Immigrazione e della Fondazione Migrantes. Dalla documentazione di Save the Children risulta che il 30 giugno 2015 in Italia fossero presenti 1.892 minori egiziani di cui 1.239 risultavano irreperibili: piccoli fantasmi ingoiati dal nulla. Nelle documentazioni del Ministero delle Politiche Sociali si confermano le testimonianze di sfruttamento, abusi, violenza fisica e sessuale subiti da minori.
La migrazione è il fenomeno che maggiormente ha caratterizzato il 2015, ed è la conseguenza della storia contemporanea: i numerosi conflitti che lacerano l’Africa (Nigeria, Burkina Faso, Burundi, Marocco, Tunisia, Algeria, Egitto e Siria), il terremoto in Nepal, gli sconvolgimenti in Medio Oriente, il fenomeno dello “Stato Islamico”, i flussi dall’est (Ucraina, Bulgaria, Romania) hanno causato un movimento migratorio di circa un milione di persone. Molte di queste si sono avventurate per mare mettendo a repentaglio la propria vita. In questa cronaca il dramma nel dramma: le migliaia di bambini che arrivano, vengono registrate e poi scompaiono nel nulla.
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